Alzheimer, con Pet e tau la diagnosi è davvero
precoce
Messa a punto una nuova metodica per identificare le prime
fasi della malattia
La diagnosi precoce dell'Alzheimer potrebbe passare
attraverso la tomografia ad emissione di positroni (Pet). Un gruppo di
ricercatori giapponesi coordinato da Makoto Higuchi, esperto del National
Instituite of Radiological Sciences di Chiba, è infatti riuscito a mettere a
punto un composto chimico che, una volta legato agli accumuli di proteina tau
che si formano nel cervello di chi sta sviluppando la malattia, può essere
visualizzato attraverso questa tecnica di imaging. L'innovativa metodica,
descritta sulle pagine di Neuron, potrebbe permettere di identificare
l'Alzheimer prima della comparsa dei suoi sintomi conclamati, consentire di
monitorare la progressione della malattia e testare l'efficacia di nuovi
farmaci.
L'accumulo di tau è un evento precoce durante lo sviluppo
dell'Alzheimer. In assenza di metodiche efficaci per identificare questo e
altri fattori tipici delle prime fasi della malattia i medici non possono fare
altro che basare la diagnosi sulla comparsa dei sintomi. Purtroppo questi
ultimi si manifestano solo quando l'Alzheimer è già in una fase avanzata e la
somministrazione di farmaci non più utile quanto si vorrebbe. Come però ha
spiegato Higuchi “le immagini dell'accumulo di tau ottenute mediante tomografia
ad emissione di positroni forniscono forti informazioni sulle regioni del
cervello che stanno sviluppando o sono a rischio di morte neuronale indotta da
tau”. In altre parole, con questa nuova tecnica la diagnosi dell'Alzheimer
potrebbe diventare davvero precoce e precedere la comparsa dei sintomi della
malattia
Con la vitamina E rallenta il declino funzionale associato
alla malattia di Alzheimer. E, anche grazie al fatto che è poco costosa e
facilmente reperibile, questa sostanza potrebbe rappresentare un aiuto per i
malati e per coloro che prestano loro assistenza: è quanto sostengono in uno
studio pubblicato sul Journal of American Medical Association (JAMA) un gruppo di 33
ricercatori di 26 istituti di ricerca differenti guidati da Maurice Dysken del
Minneapolis VA Health Care System, Minneapolis (Minnesota, Usa). Secondo gli
esperti la vitamina E, antiossidante e liposolubile, è in grado di rallentare
il declino funzionale nei soggetti affetti da Alzheimer, migliorando
l'indipendenza del paziente nello svolgimento di attività quotidiane come la
preparazione dei pasti e comportando, di conseguenza, l'alleggerimento del
lavoro per le persone che di questi malati si occupano. Nessun vantaggio è
stato invece rilevato nel miglioramento della memoria e dei test cognitivi. Lo studio è stato condotto esaminando la risposta
all'assunzione di vitamina E da parte di un gruppo di 613 pazienti affetti da
una forma lieve o moderata della malattia reclutati dai Veterans Affairs
medical centers. "Questo studio - spiega Mary Sano del James J. Peters VA
Medical Research Center di New York (Usa), coautrice della ricerca - ha
dimostrato che la vitamina E è in grado di ridurre il declino funzionale del
19% l'anno, che si traduce in 6,2 mesi di beneficio rispetto al trattamento con
placebo".
Dna, identificati 11 nuovi geni associati all'Alzheimer
La scoperta apre la strada allo sviluppo di nuove terapie
contro la demenza senile
Centoquaracinque strutture di ricerca, 17 mila pazienti, 37
mila individui sani e 21 geni. Sono questi i numeri di una ricerca pubblicata
su Nature Genetics che ha permesso di raddoppiare il numero dei fattori
genetici coinvolti nello sviluppo della malattia di Alzheimer, aprendo così la
strada ad una maggiore comprensione delle cause alla base di questa forma di
demenza. Una ricerca che secondo gli esperti offre nuove opportunità anche in
campo terapeutico. Infatti anche se l'incidenza dell'Alzheimer è in aumento in
tutto il mondo, la scienza è ben lontana dall'aver identificato terapie
efficaci per contrastarne la comparsa e la progressione. “E' molto difficile
trattare una malattia quando non si capisce che cosa la causa”, sottolinea
Julie Williams, dell'Università di Cardiff (Regno Unito), uno degli autori di
questo nuovo studio. La scoperta dei geni associati alla malattia offre però
degli indizi sui processi coinvolti nella sua comparsa. “C'è qualcosa nella
risposta immunitaria che causa l'Alzheimer e dobbiamo concentrarci su questo”,
spiega l'esperta. L'immunità non è però l'unico fattore coinvolto nella
comparsa della malattia. Fra i geni identificati da Williams e colleghi ce ne
sono anche diversi partecipanti al controllo dei livelli di colesterolo e del
processo di endocitosi, quel meccanismo che consente alle cellule, incluse
quelle del cervello, di introdurre al loro interno le molecole presenti
nell'ambiente che le circonda.
Il prossimo passo degli scienziati sarà capire in che modo i
geni identificati portano allo sviluppo della malattia. Comprendere in modo più
preciso i meccanismi alterati permetterà di identificare nuovi possibili
bersagli terapeutici da utilizzare nella messa a punto di farmaci o di approcci
terapeutici più efficaci rispetto a quelli attuali.
Quattro geni decidono se il cervello si restringe
Se, come e quando il cervello comincia a rimpicciolirsi
dipende da quattro geni, identificati dai neuroscienziati della University of
California di Los Angeles con un identikit che è finito sulle pagine di Nature
Genetics. Uno studio che riapre l’eterno dibattito a favore della tesi secondo
cui Dna e genetica hanno un’influenza decisiva sull’intelligenza. I geni in questione sono stati rintracciati dopo un lavoro
che ha coinvolto oltre 200 ricercatori alle prese con esami genetici su oltre
20mila persone. I risultati hanno aperto le porte a quattro geni che
influenzerebbero la velocità con cui si restringe con l’avanzare dell’età
un’area fondamentale del cervello, “cabina di regia” di apprendimento e
memoria. Questa riduzione, più o meno rapida, sarebbe quindi una condizione
correlata in maniera diretta con il rischio di sviluppare l’Alzheimer e con gli
effetti più o meno estesi che la malattia può avere sin dal suo esordio.
Secondo i calcoli dei ricercatori chi possiede le quattro varianti genetiche
incriminate corre il rischio di ammalarsi quattro anni in anticipo rispetto al
normale, moltiplicando il pericolo di Alzheimer che dopo i 65 anni raddoppia.
“Un ippocampo più piccolo è una barriera più debole al declino della memoria”,
spiega Paul Thompson, uno dei ricercatori. L’ippocampo ha un ruolo cruciale nel
consolidamento della memoria, soprattutto di quella destinata alla
verbalizzazione: il significato delle parole o l’associazione tra nomi e
persone, che rappresentano uno dei primi segni di debolezza di chi è colpito da
Alzheimer, insieme al disorientamento spazio-temporale.
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