La malattia di Alzheimer è in parte causata da una ridotta
eliminazione dei peptidi prodotti dalla degradazione della proteina β-amiloide (Αβ) con conseguente accumulo nel cervello.
«Questo composto può essere legato a lipidi o a proteine di trasporto dei lipidi,
come l'apolipoproteina E (ApoE), oppure essere libero in soluzione, quindi non
lipidato» come spiegato dai geriatri del Dipartimento di medicina
dell’Università dello Stato di Washington a Seattle in uno studio pubblicato su
JAMA Neurology. I livelli non lipidati di Αβ sono più elevati nel plasma di adulti con Ad, ma poco si sa sulla
loro concentrazione nel liquido cerebrospinale (Csf). Tuttavia comprendere
l’ambiente lipidico liquorale in cui si trova Αβ e capire come modularlo è di estremo interesse, in quanto l’amiloide
non lipidata forma più spesso oligomeri neurotossici»; sono stati studiati 20
adulti anziani con funzioni cognitive normali e 27 coetanei con lieve
decadimento cognitivo. I pazienti sono stati suddivisi in modo casuali in due
gruppi: il primo ha assunto una dieta ad alto contenuto di grassi saturi con
elevato indice glicemico, mentre il secondo una dieta a basso contenuto di
grassi saturi con ridotto indice glicemico. I risultati dello studio indicano
non solo che i livelli basali di Αβ
non lipidata sono più elevati nel gruppo con decadimento cognitivo, ma anche
che la dieta con pochi grassi saturi tende a diminuire l’amiloide non lipidata,
mentre quella ad alto contenuto di grassi saturi tende ad aumentarla. Questi
risultati suggeriscono che la lipidazione dell’amiloide potrebbe giocare un
ruolo nei processi patologici dell’Alzheimer, e che la lipidazione sembra
influenzata dalla dieta, sottolineando che i dati del loro piccolo studio
pilota dovranno essere replicati in casistiche più ampie prima di trarre
conclusioni definitive. In un editoriale di commento Deborah Blacker,
geriatra della Harvard Medical School di Boston, scrive: «Questo studio ci
insegna che l'intervento dietetico potrebbe cambiare la chimica dell’amiloide
cerebrale in modo significativo. La dieta povera di grassi è quindi efficace
nei pazienti che vogliono evitare la demenza? Forse no, ma questi dati
aggiungono un altro tassello alla dimostrazione che prendersi cura del cuore è
probabilmente un bene anche per il cervello».
JAMA Neurol. 2013;():1-9
La malattia di Alzheimer sta rapidamente diventando una
delle principali cause di disabilità e mortalità nei pazienti anziani. Con
l'aumento dell'aspettativa di vita, un numero crescente di persone si baserà su
moderni farmaci per il trattamento di patologie associate all'età. Tra questi
farmaci, alcuni potrebbero portare beneficio, mentre altri potrebbero
esacerbare la patogenesi della malattia di Alzheimer. Ricercatori del Mount
Sinai Medical Center di New York, che hanno pubblicato su PLoS One le loro
conclusioni, hanno esaminato 1.600 farmaci approvati dalla FDA per la loro
capacità di modificare l'attività della β-amiloide ed hanno identificato dei farmaci che possono
potenzialmente influenzare la processazionedella proteina precursore
dell'amiloide. Spiega Giulio Pasinetti, professore di neurologia al Mount
Sinai e coautore dell’articolo. Ho avuto il piacere di ascoltare Pasinetti
inviato da me e dalla dottoressa Biunno del CNR ad una conferenza a Milano nel
2004: «Diverse medicine somministrate quotidianamente per curare malattie di
frequente riscontro sarebbero in grado di bloccare o aumentare l’accumulo di
beta-amiloide, la componente principale delle placche neurodegenerative tipiche
dell’Alzheimer». Così, secondo Pasinetti, potrebbe essere possibile
identificare farmaci comuni con attività preventiva o, al contario, concausale
per l’Alzheimer. Per arrivare a queste conclusioni il neurologo del Mount Sinai
E, sorpresa, alcuni di questi, attualmente somministrati per malattie frequenti
come l’ipertensione, la depressione o l’insonnia, si sono rivelate
effettivamente in grado di bloccare o aumentare la formazione di beta-amiloide.
«Questa linea di ricerca potrebbe aiutare i medici che devono prescrivere il
farmaco più appropriato nei soggetti ad alto rischio di Alzheimer» sottolinea
Pasinetti, che per validare l’algoritmo ha somministrato i farmaci indicati dal
computer a topi geneticamente modificati per sviluppare l’amiloide, constatando
una riduzione delle placche dopo sei mesi di trattamento con antipertensivi.
Uno di questi è il carvedilolo, un farmaco betabloccante non selettivo ora
oggetto di studio per verificare la supposta capacità di rallentare la perdita
di memoria. «Confidiamo che questi risultati portino in breve tempo a un
fiorire di sperimentazioni cliniche atte a identificare quali sono i farmaci
preventivi, da prescrivere a dosi tollerabili» dice il neurologo. E conclude:
«Se fossimo in grado di riutilizzare per l’Alzheimer farmaci già impiegati con
altre indicazioni, come per esempio l’ipertensione, questo potrebbe avere
importanti conseguenze per gli ammalati».
Nuovi sviluppi farmacologici per la malattia di Alzheimer
Gli scienziati finanziati dall''UE stanno esaminando i
meccanismi neurobiologici che sono alla base della perdita di memoria provocata
dal morbo di Alzheimer, con l''obiettivo di sviluppare terapie mirate. La
malattia di Alzheimer è caratterizzata da placche neuritiche extracellulari che
contengono il peptide beta-amiloide (a-beta) e da grovigli intracellulari
neurofibrillari contenenti la proteina tau. A-beta e tau sono implicati nella
tossicità delle sinapsi, le connessioni tra i neuroni.
Gli scienziati che lavorano al progetto MEMOSAD
("Memory loss in Alzheimer disease: Underlying mechanisms and therapeutic
targets"), finanziato dall''UE, stanno studiando a-beta e tau nell''ottica
di giungere a individuare trattamenti efficaci. I componenti del team MEMOSAD
hanno svolto studi molto ampi su colture cellulari, sezioni cerebrali e
animali. Gli scienziati hanno in larga parte chiarito i singoli meccanismi di
ogni proteina e i rapporti tra di esse.
Gli studi condotti su a-beta mostrano che la tossicità
sinaptica nelle colture e le manifestazioni comportamentali di perdita della
memoria nei ratti erano correlate non alla quantità delle due diverse specie
(Abeta 40/42) ma al loro rapporto relativo. La proporzione normale è 9:1,
mentre 7:3 è tossica. Gli esami post-mortem condotti su cervelli di pazienti
affetti dalla malattia di Alzheimer, inoltre, hanno indicato la fosforilazione,
cioè l''aggiunta di un gruppo fosfato, di a-beta, aprendo nuove prospettive per
la prosecuzione della ricerca.
Gli studi sulla proteina tau dimostrano che la sua
scomposizione può generare frammenti la cui aggregazione determina tossicità.
La patogenesi della proteina tau sembra essere parzialmente correlata ai
difetti nel trasporto dei mitocondri, i produttori di energia delle cellule,
dal corpo cellulare al terminale degli assoni. La formazione della memoria è un
processo complesso, che può essere ostacolato da malfunzionamenti della
fornitura di energia alle sinapsi.
Per quanto riguarda la relazione tra a-beta e la proteina
tau, lo studio ha scoperto che l''a-beta 40/42 tossico disturba il sorting
assonale e provoca una ridistribuzione della proteina tau in compartimenti non
assonali (corpi cellulari e dendriti), uno dei primi segni della
neurodegenerazione indotta dal morbo di Alzheimer. L''ingresso della proteina
tau nei dendriti, ad esempio, ha determinato l''origine delle modifiche del
funzionamento biochimico e delle strutture post-sinaptiche dendritiche.
Grazie a una chiara comprensione dei meccanismi neurobiologici
in gioco nella malattia di Alzheimer, il consorzio ha potuto proporre vari
possibili trattamenti, che hanno come obiettivo fasi specifiche dello sviluppo
della tossicità sinaptica. Un composto contro l''aggregazione della tau è
attualmente in corso di convalida preclinica nei ratti.
I risultati del progetto MEMOSAD permetteranno anche di
ottenere informazioni preziose sulle terapie di altre malattie che presentano
disfunzioni della proteina tau o perdita di sinapsi, tra cui anche la malattia
di Parkinson.
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