mercoledì 5 marzo 2014

News dal mondo sulla demenza










L’esercizio migliora le performance degli anziani con demenza

Secondo una revisione Cochrane l’attività fisica fa bene alla demenza nelle persone anziane: ne migliora sia le prestazioni cognitive sia la capacità di svolgere le attività quotidiane. Sembrerebbero scarsi, invece, gli effetti dell’esercizio sulla depressione che spesso colpisce gli anziani con demenza, e i dati attualmente disponibili sono insufficienti a stabilire se l’attività fisica possa ridurre l'onere assistenziale per i familiari e i sistemi sanitari. «A causa dell’allungamento della vita media, i tassi di demenza sono destinati ad aumentare progressivamente nei prossimi decenni, e l’esercizio fisico potrebbe essere un utile trattamento per rallentarne la progressione grazie ai suoi effetti positivi su memoria e attenzione» spiega Dorothy Forbes, professore associato di scienze infermieristiche all’università dell’Alberta di Edmonton in Canada e prima firmataria della revisione, sottolineando che in tal modo l'esercizio fisico potrebbe avere effetti benefici indiretti anche sui caregivers e sul sistema sanitario. «Dato che negli ultimi anni sono stati pubblicati diversi studi sull’esercizio fisico negli anziani con demenza, è nata l’esigenza di aggiornare la Cochrane del 2008, realizzata quando erano disponibili solo quattro articoli sull’argomento» riprende Forbes, che assieme ai colleghi ha analizzato i dati di otto trial su 329 soggetti, rilevando che l'esercizio potrebbe effettivamente migliorare le prestazioni cognitive. Altri sei articoli che hanno coinvolto 289 anziani indicano inoltre che l'attività fisica migliora anche lo svolgimento delle attività quotidiane, come camminare per brevi distanze o alzarsi da una sedia. «Tuttavia, questi risultati vanno interpretati con cautela, anche perché non ci sono prove sufficienti a stabilire se l'esercizio migliora la depressione o riduce l’onere dei familiari e dei sistemi sanitari» dice la ricercatrice. E conclude: «Servono ulteriori studi per capire sia qual è il livello e l'intensità di esercizio utile a un anziano affetto da demenza, sia quanto l’attività fisica può ridurre i costi dei servizi sanitari e l’onere assistenziale dei familiari».

The Cochrane Library Published Online: 4 DEC 2013


Perdita di circuiti cerebrali segno di declino cognitivo
La perdita di sostanza bianca nell’area del fornice cerebrale può essere associata con un declino cognitivo in pazienti anziani sani e può essere un elemento utile a prevenire un ulteriore decadimento clinico. Lo afferma uno studio di Evan Fletcher e colleghi dell’University of California di Davis, negli Stati Uniti.
Si assiste a una crescente attenzione ai fattori che determinano il passaggio da un normale funzionamento cognitivo a un decadimento e alla demenza. In particolare, la ricerca si sta concentrando su cambiamenti microscopici individuabili tramite risonanza magnetica anni prima dell’insorgenza di un quadro clinico.
L’atrofia a livello nella regione dell’ippocampo è ormai un fattore riconosciuto negli stadi finali di decadimento cognitivo ed è una delle modificazioni associate al morbo di Alzheimer più studiate. Meno chiaro, invece, è il ruolo del fornice e di altre regioni del cervello strutturalmente connesse all’ippocampo.
Il fornice è formato da assoni provenienti da regioni dell’ippocampo e che innervano neuroni dei corpo mammillari. Questo circuito ippocampo-fornice è essenziale per il consolidamento della memoria.
Lo studio ha incluso 102 anziani senza deficit cognitivi con un’età media di 73 anni, e ha utilizzato la risonanza magnetica in un periodo di oltre 4 anni di ripetute visite.
Secondo i risultati dello studio, cambiamenti nel volume della sostanza bianca del fornice sono fattori predittivi di declino cognitivo altamente significativi. Questa perdita di volume può essere una conseguenza della diminuzione cellulare a livello dell’ippocampo che porta a una degenerazione assonale o forse amiloidosi. «Ulteriori studi sono necessari chiarificare i meccanismi biologici di questo processo», conclude Fletcher: «Questo studio è uno dei primi a stabilire un’associazione tra degenerazione del fornice e decadimento cognitivo in anziani sani. L’importanza di questo risultato sta nel promettente futuro utilizzo di misurazioni della sostanza bianca - forse ancor più di quelle tradizionalmente usate della sostanza grigia - come biomarker del decadimento cognitivo»

JAMA Neurol. Published online September 9, 2013



Declino cognitivo accelerato e durata del diabete

I diabetici di tipo 2 mostrano un accelerato declino cognitivo rispetto ai non diabetici, ed esso è variabile a seconda della durata della malattia. Parola di Martin Van Boxtel, neuropsicologo dell’Università di Maastricht, in Olanda, e coordinatore di uno studio pubblicato su Diabetes care. «Nel diabete tipo 2 aumenta il rischio di deterioramento cognitivo, ma i meccanismi alla base del fenomeno non sono ancora chiari, sebbene la malattia macro e microvascolare giochi probabilmente un ruolo importante, data la sua presenza sia nel diabete sia nella demenza» dice il ricercatore, sottolineando che gli studi sull’evoluzione del danno cognitivo nei diabetici di tipo 2 danno risultati contrastanti: secondo alcuni il declino cognitivo avviene in gran parte secondo il normale invecchiamento, mentre altri mostrano un'accelerazione rispetto ai controlli. «L’ipotesi è che la disfunzione cognitiva diabete-correlata richieda anni per emergere e che il follow-up della maggior parte degli studi sia stato troppo breve per rilevare differenze nel declino cognitivo» puntualizza Van Boxtel, che assieme ai colleghi ha studiato 1.290 partecipanti al Maastricht aging study raccogliendo informazioni sullo stato cognitivo all’inizio dello studio, dopo 6 anni, e dopo 12 anni di follow up. «Di questi, 68 erano già diabetici all’arruolamento, mentre 54 hanno sviluppato il diabete al sesto e 57 al dodicesimo anno dello studio» spiega il neuropsicologo. I partecipanti con diabete già noto all’inizio dello studio hanno mostrato un declino cognitivo maggiore rispetto agli altri sottogruppi, specie in termini di ridotta velocità di elaborazione delle informazioni e di diminuita funzione esecutiva, ovvero delle abilità necessarie per programmare, mettere in atto e portare a termine con successo un comportamento orientato a uno scopo. Viceversa, i partecipanti con diabete incidente hanno evidenziato rispetto ai soggetti di controllo solamente un modesto declino precoce in termini di velocità di elaborazione delle informazioni, senza disturbi negli altri domini cognitivi. «Sembra dunque che il tempo di esposizione alla malattia diabetica svolga un importante ruolo nell’evoluzione del declino cognitivo, e questo potrebbe fornire una finestra utile per la prevenzione e il trattamento precoce dei deficit cognitivi legati al diabete» conclude Van Boxtel.

Diabetes Care. 2013 Jun;36(6):1554-61

Il diabete influenza i meccanismi neuropatologici cerebrali aumentando la suscettibilità ai danni neurodegenerativi o vascolari: «Il nostro studio fornisce per la prima volta una spiegazione epigenetica del rischio aumentato che i diabetici hanno di sviluppare demenza» spiega Giulio Maria Pasinetti, professore di neurologia della Icahn School of Medicine al Mount Sinai Hospital di New York e coautore di uno studio appena pubblicato online su Diabetes. Demenza e diabete sono in aumento nel mondo, e la demenza cresce con l’età. I dati epidemiologici mostrano inoltre che i diabetici anziani hanno una maggiore suscettibilità alla demenza, causata dal morbo di Alzheimer (Ad) o dalla vasculopatia cerebrale (Vad). «Studi recenti suggeriscono che i deficit cognitivi della demenza possono essere ricondotti a modificazioni neuropatologiche iniziate decenni prima della sua comparsa clinica» spiega il neurologo italiano, sottolineando che, come la demenza, il diabete aumenta con l’età, incrementando rischio di Ad e Vad. Ma la novità è che a svolgere un ruolo importante nella patogenesi del diabete possono essere meccanismi epigenetici, cambiamenti che influenzano l’attività genica senza alterare il Dna. Ad esempio, le alterazioni dell’istone deacetilasi (Hdac) possono causare modifiche biochimiche nelle cellule beta pancreatiche che a loro volta portano a difetti nell’omeostasi del glucosio e all'insulino-resistenza, culminando nel diabete di tipo 2. I meccanismi epigenetici sono stati ampiamente studiati anche a livello cerebrale: la metilazione e l’acetilazione degli istoni nell'ippocampo svolgono un ruolo importante nella modulazione sinaptica neuronale, interferendo con l'apprendimento e la memoria. Partendo da questi presupposti Pasinetti e colleghi hanno verificato se il diabete modifica i meccanismi epigenetici cerebrali portando a variazioni strutturali o funzionali associate a disturbi neurologici degenerativi. E i dati confermano un significativo aumento di espressione della Hdac nel cervello dei diabetici rispetto ai controlli, con alterata espressione delle proteine ​​sinaptiche. E l'inibizione farmacologica della Hdac ha ripristinato la plasticità sinaptica. «Se le modifiche epigenetiche si possono manipolare farmacologicamente, gli studi in questa direzione saranno fondamentali nella formulazione di nuove strategie terapeutiche e preventive nella malattia di Alzheimer» conclude Pasinetti.

Diabetes, Published online before print October 23, 2013,

Summit G8 su demenza: triplicherà nel mondo ma i governi sono impreparati

L’ultimo allarme è stato lanciato alla vigilia del summit del G8 sulla demenza che di è svolto  a Londra lo scorso dicembre 2013: nel mondo, secondo una nuova analisi, il numero di persone affette da demenza è destinato a triplicarsi entro il 2050 e la malattia di Alzheimer passerà, dagli attuali 44 milioni, a colpirne 135. Pietro Tiraboschi, neurologo presso l’Istituto neurologico Carlo Besta di Milano, spiega che le previsioni sono legate all’aumento dell’aspettativa di vita: «In una prospettiva mondiale, anche i Paesi meno sviluppati, con il miglioramento delle condizioni e della durata media della vita, dovranno fronteggiare un aumento relativo ancora superiore a quello atteso nei paesi avanzati». Il report denuncia che la maggior parte dei governi è impreparata alla “epidemia” di demenza che li aspetta. Anche in Italia, come sottolinea Fabrizio Tagliavini, che al Besta è direttore del Dipartimento di malattie neurodegenerative, «non vi è un piano nazionale per le demenze, sebbene il Ministero della salute abbia pubblicato un documento in dieci punti per lo sviluppo di una strategia nazionale». Alcune iniziative sono state intraprese a livello locale. Proprio l’Istituto Carlo Besta sta cercando di creare un modello in collaborazione con la ASL di Milano: «È già in atto,conferma Tiraboschi, un protocollo che favorisce un lavoro in rete tra i medici di medicina generale ed i centri di primo e secondo livello presenti sul territorio; solo un terzo dei pazienti con demenza è conosciuto dal medico di base e il progetto ha l’obiettivo di arrivare a un inquadramento e una individuazione più precoce dei pazienti». È noto che oggi non esistono farmaci in grado di incidere sui meccanismi patogenetici, tuttavia una diagnosi precoce è importante. «Disponiamo di farmaci sintomatici che consentono un ritorno alle prestazioni precedenti per sei, nove mesi prima che la malattia riprenda il suo corso. Il paziente, mentre la capacità decisionale non è ancora compromessa, può procedere a scelte cruciali per quanto riguarda se stesso, il proprio patrimonio e il tipo di assistenza che desidera nelle fasi successive».

1 commento:

  1. Molto spesso purtroppo viene confusa con la tristezza e si arriva tardi a curarsi. Vediamo ora qualche consigli su come fare ad affrontare questa malattia.
    https://lamiabadante.blogspot.com/2018/10/combattere-la-depressione-degli-anziani.html
    Combattere la depressione degli anziani

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