domenica 2 febbraio 2014

Dal mondo della Ricerca

Alzheimer, con Pet e tau la diagnosi è davvero precoce

Messa a punto una nuova metodica per identificare le prime fasi della malattia

La diagnosi precoce dell'Alzheimer potrebbe passare attraverso la tomografia ad emissione di positroni (Pet). Un gruppo di ricercatori giapponesi coordinato da Makoto Higuchi, esperto del National Instituite of Radiological Sciences di Chiba, è infatti riuscito a mettere a punto un composto chimico che, una volta legato agli accumuli di proteina tau che si formano nel cervello di chi sta sviluppando la malattia, può essere visualizzato attraverso questa tecnica di imaging. L'innovativa metodica, descritta sulle pagine di Neuron, potrebbe permettere di identificare l'Alzheimer prima della comparsa dei suoi sintomi conclamati, consentire di monitorare la progressione della malattia e testare l'efficacia di nuovi farmaci.
L'accumulo di tau è un evento precoce durante lo sviluppo dell'Alzheimer. In assenza di metodiche efficaci per identificare questo e altri fattori tipici delle prime fasi della malattia i medici non possono fare altro che basare la diagnosi sulla comparsa dei sintomi. Purtroppo questi ultimi si manifestano solo quando l'Alzheimer è già in una fase avanzata e la somministrazione di farmaci non più utile quanto si vorrebbe. Come però ha spiegato Higuchi “le immagini dell'accumulo di tau ottenute mediante tomografia ad emissione di positroni forniscono forti informazioni sulle regioni del cervello che stanno sviluppando o sono a rischio di morte neuronale indotta da tau”. In altre parole, con questa nuova tecnica la diagnosi dell'Alzheimer potrebbe diventare davvero precoce e precedere la comparsa dei sintomi della malattia


Con la vitamina E rallenta il declino funzionale associato alla malattia di Alzheimer. E, anche grazie al fatto che è poco costosa e facilmente reperibile, questa sostanza potrebbe rappresentare un aiuto per i malati e per coloro che prestano loro assistenza: è quanto sostengono in uno studio pubblicato sul Journal of American Medical Association (JAMA) un gruppo di 33 ricercatori di 26 istituti di ricerca differenti guidati da Maurice Dysken del Minneapolis VA Health Care System, Minneapolis (Minnesota, Usa). Secondo gli esperti la vitamina E, antiossidante e liposolubile, è in grado di rallentare il declino funzionale nei soggetti affetti da Alzheimer, migliorando l'indipendenza del paziente nello svolgimento di attività quotidiane come la preparazione dei pasti e comportando, di conseguenza, l'alleggerimento del lavoro per le persone che di questi malati si occupano. Nessun vantaggio è stato invece rilevato nel miglioramento della memoria e dei test cognitivi. Lo studio è stato condotto esaminando la risposta all'assunzione di vitamina E da parte di un gruppo di 613 pazienti affetti da una forma lieve o moderata della malattia reclutati dai Veterans Affairs medical centers. "Questo studio - spiega Mary Sano del James J. Peters VA Medical Research Center di New York (Usa), coautrice della ricerca - ha dimostrato che la vitamina E è in grado di ridurre il declino funzionale del 19% l'anno, che si traduce in 6,2 mesi di beneficio rispetto al trattamento con placebo".


Dna, identificati 11 nuovi geni associati all'Alzheimer

La scoperta apre la strada allo sviluppo di nuove terapie contro la demenza senile
Centoquaracinque strutture di ricerca, 17 mila pazienti, 37 mila individui sani e 21 geni. Sono questi i numeri di una ricerca pubblicata su Nature Genetics che ha permesso di raddoppiare il numero dei fattori genetici coinvolti nello sviluppo della malattia di Alzheimer, aprendo così la strada ad una maggiore comprensione delle cause alla base di questa forma di demenza. Una ricerca che secondo gli esperti offre nuove opportunità anche in campo terapeutico. Infatti anche se l'incidenza dell'Alzheimer è in aumento in tutto il mondo, la scienza è ben lontana dall'aver identificato terapie efficaci per contrastarne la comparsa e la progressione. “E' molto difficile trattare una malattia quando non si capisce che cosa la causa”, sottolinea Julie Williams, dell'Università di Cardiff (Regno Unito), uno degli autori di questo nuovo studio. La scoperta dei geni associati alla malattia offre però degli indizi sui processi coinvolti nella sua comparsa. “C'è qualcosa nella risposta immunitaria che causa l'Alzheimer e dobbiamo concentrarci su questo”, spiega l'esperta. L'immunità non è però l'unico fattore coinvolto nella comparsa della malattia. Fra i geni identificati da Williams e colleghi ce ne sono anche diversi partecipanti al controllo dei livelli di colesterolo e del processo di endocitosi, quel meccanismo che consente alle cellule, incluse quelle del cervello, di introdurre al loro interno le molecole presenti nell'ambiente che le circonda.
Il prossimo passo degli scienziati sarà capire in che modo i geni identificati portano allo sviluppo della malattia. Comprendere in modo più preciso i meccanismi alterati permetterà di identificare nuovi possibili bersagli terapeutici da utilizzare nella messa a punto di farmaci o di approcci terapeutici più efficaci rispetto a quelli attuali.


Quattro geni decidono se il cervello si restringe

Se, come e quando il cervello comincia a rimpicciolirsi dipende da quattro geni, identificati dai neuroscienziati della University of California di Los Angeles con un identikit che è finito sulle pagine di Nature Genetics. Uno studio che riapre l’eterno dibattito a favore della tesi secondo cui Dna e genetica hanno un’influenza decisiva sull’intelligenza. I geni in questione sono stati rintracciati dopo un lavoro che ha coinvolto oltre 200 ricercatori alle prese con esami genetici su oltre 20mila persone. I risultati hanno aperto le porte a quattro geni che influenzerebbero la velocità con cui si restringe con l’avanzare dell’età un’area fondamentale del cervello, “cabina di regia” di apprendimento e memoria. Questa riduzione, più o meno rapida, sarebbe quindi una condizione correlata in maniera diretta con il rischio di sviluppare l’Alzheimer e con gli effetti più o meno estesi che la malattia può avere sin dal suo esordio. Secondo i calcoli dei ricercatori chi possiede le quattro varianti genetiche incriminate corre il rischio di ammalarsi quattro anni in anticipo rispetto al normale, moltiplicando il pericolo di Alzheimer che dopo i 65 anni raddoppia. “Un ippocampo più piccolo è una barriera più debole al declino della memoria”, spiega Paul Thompson, uno dei ricercatori. L’ippocampo ha un ruolo cruciale nel consolidamento della memoria, soprattutto di quella destinata alla verbalizzazione: il significato delle parole o l’associazione tra nomi e persone, che rappresentano uno dei primi segni di debolezza di chi è colpito da Alzheimer, insieme al disorientamento spazio-temporale.

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